Antefatti
Per cercare di risolvere le sorti dell’esercito austriaco, che dopo l’undicesima battaglia dell’Isonzo (o della Bainsizza) era ridotto in condizioni molto precarie, gli Stati Maggiori tedesco e austro-ungarico concertarono di sferrare prima dei mesi invernali, un grande attacco contro l’ala nord della 2a Armata italiana (da Plezzo a Tolmino), che per l’andamento e la consistenza delle linee era giudicata da Hindenburg « manifestamente debole ». Venne riunito, quindi, sollecitamente un forte nucleo di truppe (8 Divisioni austriache e 7 tedesche) che prese il nome di 14a Armata e fu posto al comando del generale tedesco von Below. La inattività dello scacchiere francese, dopo il fallimento dell’offensiva Nivelle e gli ammutinamenti che ne erano seguiti, e il crollo pressoché totale dell’esercito russo diedero luogo a una disponibilità, sia pure temporanea, di riserve tedesche da impiegare a favore dell’Austria nell’intento di far massa contro l’Italia e ridurla alla resa.
I preparativi dell’avversario non sfuggirono all’attenzione dei Comandi italiani, ai quali, anzi, per merito di disertori, furono forniti particolari abbastanza dettagliati circa la prossima, grande offensiva avversaria. Il generale Cadorna, informato dei preparativi austro-tedeschi, rinunciò all’intenzione di effettuare alcune operazioni offensive per migliorare l’andamento del fronte e, il 18 settembre, ordinò alle Armate 2a e 3a di assumere un atteggiamento difensivo. Mentre il duca d’Aosta, comandante della 3a Armata, si attenne alle disposizioni, il Generale Capello, comandante della 2a, credette più opportuno far mantenere alle proprie truppe uno schieramento offensivo, convinto di poter così più facilmente passare alla controffensiva. Cadorna, peraltro piuttosto scettico sull’entità dello sforzo austriaco, non si curò di controllare che quella e altre sue direttive fossero attuate e, di conseguenza, la 2a Armata fu sorpresa dall’offensiva nemica con uno schieramento del tutto inadatto alla difesa.
Le forze in campo
Forze italiane
Forze austro-germaniche
Se i rapporti di forze dell’arma base non davano una schiacciante superiorità alle forze attaccanti, è però da rilevare che:
- la formazione dei battaglioni austro-tedeschi era superiore a quella dei battaglioni italiani, sia dal punto di vista della forza organica, sia della potenza di fuoco. Infatti il battaglione austro-tedesco era su 4 compagnie fucilieri di 150 uomini ciascuna e una compagnia mitragliatrici pesanti di 8 armi, mentre il battaglione italiano era su 3 compagnie fucilieri di 175 uomini ed una compagnia mitragliatrici pesanti su 6 armi. Le compagnie austro-tedesche avevano poi una larga dotazione di mitragliatrici leggere trasportabili da un solo uomo con sostegno a bipiede che consentivano di erogare un elevato volume di fuoco, nettamente superiore a quello della sezione pistole mitragliatrici su 3 armi della compagnia di fanteria italiana;
- i battaglioni austro-ungarici operarono in genere a pieno organico, mentre quelli italiani erano menomati dall’elevato numero di personale inviato in licenza ordinaria invernale, uno dei provvedimenti presi da Cadorna per risollevare il morale delle truppe. Pertanto quasi 120.000 uomini risultavano, poco prima dell’attacco austro-tedesco, lontani dal fronte. Si calcola che i battaglioni italiani superavano di poco la metà della forza organica.
- le avanguardie austro-tedesche erano composte da battaglioni d’assalto (Sturmtruppen), formati da personale scelto, perfettamente addestrato a svolgere operazioni d’attacco a posizioni rafforzate e in possesso di morale molto elevato;
- i reparti di fanteria italiani a livello di plotone/compagnia/battaglione avevano in genere un inquadramento molto lacunoso, essendo comandanti quasi esclusivamente da ufficiali di complemento di recente nomina, con scarsa preparazione professionale per effetto dei corsi accelerati di breve durata (2-3 mesi) e minimo ascendente sul personale di truppa dipendente. Ciò a motivo delle elevate perdite, morti o feriti in combattimento, di ufficiali inferiori subite nel corso del conflitto e degli avanzamenti ai gradi superiori, che avevano portato alla perdita dei migliori quadri ai livelli più bassi. I reparti austro-tedeschi fondavano invece il proprio inquadramento dei minori livelli organici sui sottufficiali a lunga ferma, personale di norma esperto e provato al combattimento, di grande autorevolezza, in grado di mantenere salda la disciplina e di ben coadiuvare gli ufficiali nell’azione di comando;
- anche l’inquadramento dei Corpi e delle Grandi Unità non era dei migliori a causa delle frequenti sostituzioni di comandanti causate dalle promozioni ma soprattutto dei frequenti siluramenti. Fenomeni che causavano profonda sfiducia nell’ambito del corpo ufficiali, assieme alla disparità di trattamento tra quelli in servizio permanente e quelli provenienti dal complemento e alla concessione delle ricompense fra ufficiali impegnati in prima linea e quelli addetti ai comandi. La mancanza di continuità di comando finiva così per inficiare sia la coesione organica tra gli uomini dello stesso reparto sia quella fra reparti di una stessa Grande Unità.
Il rapporto di due a uno nel campo delle artiglierie non rende bene l’idea della netta superiorità di fuoco che avevano gli Austro-Tedeschi. La 14^ Armata infatti disponeva di mortai, obici e cannoni moderni, ad elevate prestazioni, dotati tutti di organi elastici e di una larga dotazione di munizioni. L’artiglieria italiana aveva invece ancora in armamento numerosi pezzi antiquati, ad affusto rigido, con bocche da fuoco talvolta in ghisa o bronzo compresso, caratterizzate da gittate limitate e scarse cadenze di tiro. Gli Austro-Tedeschi, poi, poterono contare su un vasto impiego di granate con caricamento a gas, la cui composizione chimica era in grado di aver ragione dei filtri della maschera polivalente italiana all’epoca in dotazione. Nella conca di Plezzo, inoltre, i Tedeschi utilizzarono per la prima volta sul fronte italiano i cosiddetti Gaswerfer, con accensione elettrica in grado di lanciare in un’unica soluzione salve di bombe a caricamento chimico, che sterminarono in pochi minuti i difensori della prima linea italiana.
Alla superiorità degli armamenti in dotazione, i Tedeschi soprattutto unirono un addestramento specifico al combattimento d’assalto e alla manovra in profondità col ricorso alla tecnica dell’infiltrazione, copiata anche dagli Austriaci, che evitando di attaccare frontalmente le posizioni avversarie più forti tendeva ad aggirarle, incuneandosi attraverso i punti deboli della difesa, imprimendo un andamento travolgente all’avanzata, spingendosi temerariamente entro le linee italiane, senza riguardo al collegamento con le proprie forze contermini e alle posizioni avversarie retrostanti ancora in efficienza che venivano sopravanzate. Nell’avanzare, il grosso delle formazioni di fanteria era infatti preceduto da pattuglie largamente dotate di armi automatiche, incaricate di penetrare celermente all’interno del dispositivo nemico, senza curarsi dell’allineamento coi reparti contermini, aggirando e colpendo sui fianchi e sul retro i reparti italiani. Le pattuglie esploranti avanzavano sondando il dispositivo nemico allo scopo di individuarne i punti deboli o poco presidiati, infiltrandosi poi nelle maglie del difensore per sorprenderlo col fuoco da tergo. Questa tecnica d’attacco estremamente innovativa, e che otterrà successi eclatanti anche nel corso del 1918 contro i franco-britannici sul fronte occidentale, si fondava su elevato addestramento, spirito d’iniziativa e ampia libertà d’azione lasciata ai comandanti dei minori livelli organici. Gli Italiani, abituati ad affrontare gli Austriaci, senz’altro molto meno addestrati e combattivi dei Tedeschi, furono colti di sorpresa da queste nuove tecniche offensive, finendo travolti dalla superiore capacità manovriera dei reparti germanici. Questi ultimi, infine, dimostrarono grande audacia, non esitando a incunearsi in profondità nelle retrovie italiane, con elevati ritmi di progressione, accettando il rischio di lasciare alle spalle forti reparti italiani appostati su quote dominanti. L’avanzata austro-tedesca così repentina fece così saltare ogni schema difensivo italiano, i cui comandi non si aspettavano di vedere travolte con tale facilità linee difensive anche molto forti per la natura del terreno e per gli apprestamenti costruiti. Fra le nuove tecniche di combattimento utilizzate dai reparti tedeschi, quella più dirompente fu comunque l’attacco dopo una breve ma violenta preparazione d’artiglieria. Ciò sorprese gli Italiani che si aspettavano, secondo la consueta tecnica, giorni di approntamento e non, dopo poche ore di fuoco, lo scatto quasi immediato delle fanterie.
La rapidità dello sfondamento della prima linea italiana operato dagli Austro-Tedeschi, che crollò di schianto in poche ore, e il ritmo di progressione particolarmente elevato impresso dall’avanzata portò al collasso la linea di comando italiana, che non seppe reagire tempestivamente alla nuova situazione. L’entità della sconfitta e del terreno perduto in modo così rapido portò al tracollo morale di molti reparti della 2a Armata italiana, che persero nel corso della ritirata la propria coesione organica.
Svolgimento della battaglia
Alla fine del mattino del 24 ottobre s’iniziò la fase del bombardamento; formidabile, e in gran parte con proiettili a gas tossici. In breve tutto, nelle prime linee italiane, fu sconvolto, e ogni comunicazione con i comandi interrotta. Mentre nelle trincee di prima linea non rimanevano che rare catene di uomini, annichiliti dall’intensità del bombardamento e dall’azione dei gas, dietro incominciavano ben presto a diffondersi il disordine e lo sgomento. Le nostre artiglierie, intanto, sia per la fitta nebbia, sia, in qualche tratto, per erronea interpretazione di ordini, non opponevano al fuoco nemico che una reazione fiacca e incerta. Verso le otto, mentre mine esplodevano sul monte Rosso e sul Mrzli, la 14a Armata lanciava le sue colonne all’attacco contro le posizioni del IV e del XXVII Corpo; con più deciso impeto nella conca di Plezza e nel settore della testa di ponte di Tolmino. Benché in molti punti le truppe italiane opponevano una strenua resistenza, in breve le linee nella conca di Plezzo e nel tratto Sleme-Mrzli e nel settore di sinistra del XXVII Corpo d’armata furono sommerse, e prima di mezzogiorno le truppe del settore di Plezzo erano in ritirata sulla stretta di Saga: la 12a Divisione germanica, sfondate le difese nel tratto Gabrie-Selisce, avanzava rapidamente lungo le due rive del fiume; L’Alpenkorps (del gruppo von Stein) travolte le truppe della 19a Divisione, si affermava sui constoni di Costa Raunza e di Costa Duole; il gruppo Scotti, impadronitosi del Krad Vhr e del costone di Cemponi, attaccava il Globocak. Nel pomeriggio le sorti della battaglia precipitavano; mentre le riserve affluivano disordinatamente e qualche reparto si lasciava vincere dal panico e dallo sconforto, i Tedeschi, avanzando con sicurezza quasi temeraria per il fondo valle, poco dopo mezzogiorno raggiungevano Kamno, alle 14 Idersko, alle 15 Caporetto.
Il primo atto del dramma era compiuto. Invano le truppe della Bainsizza e del Carso si opponevano ai reiterati attacchi nemici e li respingevano; invano nella giornata del 25 alcuni reparti mantenutisi solidi e altri sopraggiunti precipitosamente in rinforzo tentavano di arginare le masse austro-tedesche, che imbaldanzite dal rapido trionfo, premevano ormai alle testate di tutte le valli e dilagavano per tutte le strade. Alla sera del 25, il Gruppo Krauss era riuscito a sfondare lo sbarramento di valle Uccea e a strappare lo Stol alla 50a Divisione; a sud, il Kolovrat e il Globocak cadevano in mano dell’avversario. Quelle unità del IV Corpo che erano rimaste sulla sinistra dell’Isonzo, venivano in gran parte catturate; solo un manipolo di alpini e di fanti si manteneva ancora, in tragico isolamento, sul monte Nero. Il giorno 26, con la caduta di Monte Maggiore e il conseguente irrompere dei nemici in val Resia, anche l’ultima linea di difesa fu scardinata e la via per Cividale aperta, così che il Comando Supremo fu costretto a ordinare la ritirata generale. Anche la 3a Armata intanto, che aveva fronteggiato bravamente la intensificata pressione avversaria, doveva ripiegare.
Era stata scelta, quale prima linea di resistenza quella del Tagliamento, ma poi si constatò la necessità di ritirarsi sino al Piave. Cadorna si era cautelato fin dal 1916 per il caso di un eventuale ripiegamento dalle posizioni del Carso verso la pianura veneta. Ultimo baluardo per la difesa della pianura padana era stato individuato nell’allineamento Grappa-Piave sui quali erano stato ordinati e attuati importanti lavori difensivi. Il Piave del resto era stato preso in considerazione quale zona di radunata o linea di difesa anche dai predecessori di Cadorna, a cominciare dal Gen. Trancredi Saletta.
Sulla linea del Tagliamento si portarono, seguendo l’alta valle del Piave, la 4a Armata e il Corpo della Carnia. Forti e salde retroguardie e le divisioni di cavalleria diedero protezione al movimento dei resti della 2a Armata e dell’intera 3a Armata, che correvano il grave pericolo di essere prevenuti e aggirati dal nemico, incalzante sul Tagliamento. Su questa linea fu imbastita una prima difesa, che resse l’urto dal 31 ottobre al 4 novembre e una seconda resistenza fu opposta sulla linea della Livenza, tenuta sino al giorno 8 novembre. Nella giornata del 9 tutte le truppe superstiti avevano raggiunto la sponda destra del Piave, ricostituendo la saldatura tra il fronte trentino ed il settore di pianura. La 12a battaglia dell’Isonzo era finita.
Nella mattina dello stesso giorno 9 il Generale Cadorna fu sostituito dal Generale Armando Diaz, provvedimento doloroso ma inevitabile per parecchi motivi, per quanto Cadorna avesse guidato con mano sicura la ritirata al Piave, la fiducia del Governo e della Nazione nel generalissimo era ormai scossa; gli Alleati, infine nel convegno tenutosi a Rapallo dal 5 al 7 novembre, avevano chiesto la sostituzione di Cadorna, subordinando al cambio del comandante in capo l’invio di alcune loro divisioni.
Le perdite subite dagli Italiani furono molto gravi: oltre alla quasi totale distruzione della 2a Armata e della zona Carnia, si contarono 10.000 morti, 30.000 feriti, 265.000 prigionieri, 350.000 sbandati, 3.000 pezzi di artiglieria, 1.700 bombarde, 30.000 fucili, 22 campi d’aviazione perduti.
Cause della sconfitta
Sicuramente l’errato schieramento difensivo italiano, addensato troppo sulle linee avanzate, le seconde e terze linee di difesa furono lasciate quasi sguarnite, facilitò la penetrazione avversaria. Si mancò di schierare preventivamente le riserve su posizioni fondamentali e facilmente difendibili come ad esempio la stretta di Saga. Si preferì, inoltre, presidiare le posizioni in quota, lasciando pochi e scarni reparti nei fondovalle, facilmente sbarrabili, dove invece si concentrò lo sforzo offensivo nemico.
Determinante fu anche la mancanza di costituzione di forti riserve a disposizione dei comandanti a tutti i livelli organici. Le truppe di riserva erano costituite spesso da reparti logorati in corso di riordinamento, da poco ritirati dalla prima linea, in attesa dell’afflusso dei complementi e quindi di scarsa efficienza bellica. Le riserve del Comando Supremo e d’Armata furono addensate, le prime a sud della linea Udine-Cividale, anziché più a nord in direzione del settore attaccato dell’alto Isonzo, e le seconde lontane dal settore del IV Corpo d’Armata del Gen. Alberto Cavaciocchi, che il 25 ottobre ebbe a subire il maggior numero degli attacchi. Cadorna, sottovalutando la capacità d’urto del nemico e ancora non ben convinto della provenienza della minaccia, sperava di avere più tempo a disposizione per manovrare le proprie riserve, come era accaduto nel corso della Spedizione punitiva in Trentino del maggio-giugno 1916. Del resto, anche le esperienze delle offensive sul Carso lo inducevano a escludere che un attacco, per quanto potente, riuscisse a sfondare tre linee di difesa in dodici ore. Così, il Capo di Stato Maggiore ritardò nel rinforzare il dispositivo avanzato della 2a Armata, assegnando la 34a Divisione al IV Corpo d’Armata solo il 22 ottobre, stimando le difese avanzate numericamente sufficienti a rintuzzare l’attacco nemico.
Inoltre fu incisivo anche lo stato poco elevato del morale delle truppe italiane. E’ indubbio che tra le file italiane serpeggiava il malcontento per le reiterate offensive sull’Isonzo, che avevano portate a perdite spaventose senza importanti successi territoriali (a parte la conquista di Gorizia dell’agosto 1916). La stanchezza della guerra, che sembrava non finire mai, aveva abbassato il tono morale delle fanterie che ne subivano il peso maggiore. Il dirompente esempio della rivoluzione russa del 1917 e la propaganda contro la guerra che i socialisti e i cattolici portavano avanti sul fronte interno ebbero riflessi anche sulle truppe, diminuendo la volontà di combattere e la fiducia nella vittoria. Gli scioperi d’agosto 1917 nel triangolo industriale, repressi nel sangue (40 morti tra gli operai) avevano scosso l’opinione pubblica. In effetti vari reparti di fanteria opposero poca resistenza agli attacchi nemici, soprattutto quelli di riserva. Tale mancanza di combattività non fu comunque un fenomeno organizzato o consapevolmente messo in atto per protesta, contrariamente a quanto tentato di individuare da taluni storici che hanno parlato di “sciopero militare” dell’Esercito. Se la 2a Armata fu sfondata e i resti delle sue unità rifluirono al Piave in stato di completo collasso morale, le altre armate (1a, 3a e 4a) tennero duro e continuarono a combattere con discreta efficienza e rendimento sul Grappa e sul Piave, salvando la situazione.
Anche le circostanze meteorologiche veramente avverse ebbero il loro peso, quali fra le altre il maltempo, dominante nel mese di ottobre, che rese più difficile le osservazioni aeree e terrestri; la nebbia, che favorì in modo notevole le artiglierie austro-germaniche battenti bersagli fissi e ben noti e l’avanzata delle fanterie nemiche in molti settori di attacco, mentre rendeva difficoltoso e talvolta impossibilitava il tiro di sbarramento nostro e l’adeguata manovra dei rincalzi e delle riserve; le piogge dei giorni dal 24 al 27 ottobre, che rallentarono la marcia e in molti punti, per fango e frane, impedirono il transito alle pesantissime colonne italiane in ritirata, mentre rimaneva pur sempre facilità di movimento ai leggerissimi nuclei avversari inseguenti; la piena dei fiumi quando doveva effettuarsi il passaggio delle truppe in ritirata, specialmente sul Tagliamento, i cui ponti di galleggianti furono tutti travolti; come il buon tempo e la decrescenza rapidissima del fiume allorquando doveva in seguito essere difeso e il nemico passarlo.
Carenze della branca informazioni del Comando Supremo, complice anche l’Ufficio Situazione che ritardò a valutare pienamente la minaccia nemica, nonostante i numerosi indizi e notizie che giungevano sulle predisposizioni offensive nemiche in alto Isonzo, Cadorna sottostimò fino alla seconda metà di ottobre la reale portata dell’attacco nemico. Non si attendeva inizialmente un’offensiva in grande stile, ma soltanto un tentativo limitato per riprendere l’altopiano della Bainsizza. Ancora il 23 ottobre Cadorna prevedeva un attacco nemico lungo tutto il corso dell’Isonzo, con preponderanza dello sforzo tra Plezzo e Tolmino. Da qui lo schieramento eccentrico delle riserve rispetto al settore d’attacco e i provvedimenti presi sotto l’assillo dell’ansia e del timore, che si riveleranno in alcuni casi anche controproducenti, come il cambio dei limiti di settore tra il IV ed il XXVII Corpo d’Armata, che tolsero unitarietà di difesa nel fondo valle dell’Isonzo. La sera del 22 ottobre, infatti, il comandante interinale della 2ª Armata, il gen. Montuori, che aveva temporaneamente sostituito Capello, caduto in malattia proprio alla vigilia dell’attacco nemico, aveva ordinato, infatti, il rimaneggiamento del settore di responsabilità tra i due Corpi d’Armata all’altezza di Volzana, passando la Brigata “Napoli” alle dipendenze del gen. Badoglio. Il 24 la 12ª Divisione slesiana approfittò del rischieramento in atto delle truppe italiane per superare con facilità le prime linee nemiche, tenute da un solo battaglione, e puntare sulla conca di Caporetto.
Anche in fase di condotta l’azione i comandi italiani lasciò molto a desiderare, soprattutto nella direzione del fuoco di artiglieria, che risultò di scarsa efficacia, quando non assente del tutto, mentre si abbandonarono o si difesero con scarse truppe posizioni difensive di importanza fondamentale. Nonostante gli ordini del Comando Supremo di iniziare il fuoco di contropreparazione al primo accenno della preparazione d’artiglieria nemica, alcuni comandi come quello del XXVII Corpo d’armata del Gen. Pietro Badoglio ordinarono alle proprie batterie di non agire d’iniziativa ma di aspettare l’ordine d’intervento del comando, che però non giunse mai a causa dell’interruzione dei collegamenti a filo fin dai primo momenti del bombardamento nemico.
Altri gravi errori che spalancarono l’accesso alle retrovie italiane furono il mancato sbarramento del fondo valle Isonzo nel tratto tra Monte Plezia e la riva destra del fiume e della stretta di Saga, il cui presidio fu inspiegabilmente abbandonato nel corso dell’azione attraverso uno sciagurato ed intempestivo ordine di ritirata inviato dal Gen. Arrighi alle truppe della 50a Divisione che vi stazionavano.
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